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DE GASPERI AL TAVOLO DELLA PACE
Il 10 agosto 1946 i rappresenanti dei ventuno Paesi vincitori iniziavano a Parigi il dibattito che impose all'Italia le condizioni di pace. In quella dolorosa occasione, si fece luce un uomo fino allora sconosciuto sul piano internazionale Alcide De Gasperi. Le sue parole, la sua fierezza, il suo intuio politico riscattarono agli occhi del mondo intero la sconfitta dell'Ialia.

« Entrino gli italiani! » ordinò a gran voce il delegato francese Bidault che presiedeva la Conferenza della pace. Nella vasta sala del Palazzo del Lussemburgo, gremita da millecinqueccnto persone, si fece un silenzio profondo. Era il pomeriggio del 10 agosto 1946, i rappresentanti dei ventuno Paesi vincitori della seconda guerra mondiale riuniti a Parigi stavano giudicando l'Italia sconfitta nella folle avventura bellica voluta da Mussolini. I popoli vittoriosi preparavano il conto delle riparazioni che i vinti avrebbero dovuto pagare.
Tutti gli occhi, nella sala del Palazzo del Lussemburgo, erano fissi verso la portiera rossa, in fondo all'aula, da cui gli italiani sarebbero entrati. Trascorsero due lunghissimi minuti. Poi la porta si spalancò. E si vide avanzare un uomo che sembrava portasse un pesante fardello. Sul suo volto si leggevano tristezza e dolore, ma anche un'espressione di dignità e di coraggio, la convinzione di avere personalmente la coscienza tranquilla. Era Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri della nuova Italia, un'Italia carica di lutti e di macerie, tragica eredità lasciata dal fascismo. Srisse in quei giorni il New York Times: « L'ironia della posizione di De Gasperi è che egli debba subire la punizione di peccati commessi dal regime che egli ha combattuto per tutta la vita ».
Toccava all'antifascista il duro compito di perorare la causa della propria Patria che si rimetteva faticosamente in cammino verso la democrazia.
Dopo De Gasperi entrarono gli altri componenti la delegazione italiana: Bonomi, Saragat, Brusasca, Quaroni, Carandini, Gorbino, Tarchiani, Martini. Nella sala aleggiava un senso di curiosità verso i nemici divenuti poi alleati contro i tedeschi dopo la caduta del fascismo nel luglio 1943. Ma i ricordi del lungo regime mussoliniano predominavano su ogni altra considerazione. Gli italiani vennero accolti in un'atmosfera di diffidenza e di incomprensione. Furono trattati solo da nemici. Dovettero andare a sedersi dietro tutti gli altri, sugli ultimi scanni. Nessuno li salutò.
Fu Bidault quale presidente della riunione, a rompere il gelo. Egli presentò ufficialmente la delegazione italiana, pronunciò frasi di benvenuto alla «nuova Italia», poi invitò De Gasperi a parlare.
A questo punto accadde un fatto allora non frequente nelle conferenze internazionali: di colpo si videro sciabolare le luci di riflettori, che inquadrarono De Gasperi. Cinque, dieci macchine da presa cominciarono a ronzare. Un altro segno della curiosità quasi morbosa che stringeva d'assedio gli italiani.
De Gasperi si alzò, seguito da tutti gli sguardi scese nell'emiciclo. Salì nella tribuna riservata agli oratori. Nessuno accennò ad un applauso, anche se l'uomo che i vincitori si apprestavano ad ascoltare rappresentava l'antitesi dell'Italia sotto accusa.
Dopo qualche istante di silenzio, De Gasperi cominciò a parlare. La sua bocca sembrava come inaridita dalla sete o per la febbre. Egli scandiva le sillabe, nello sforzo tremendo dell'avvio di un discorso da cui potevano dipendere le sorti della Patria per molti anni. A poco a poco trovò il ritmo, la sua voce si fece sicura, a volte ebbe accenti caldi, ma senza retorica e senza toni supplichevoli. Le mani non indulsero al gesto. La dignità dell'oratore colpì l'assemblea, ne vinse le diffidenze. Tutti cominciarono a seguire, attraverso le cuffie, il discorso tradotto nelle varie lingue.
Alcide De Gasperi parlò in italiano. Fino all'ultimo, nella nostra delegazione v'era stata incertezza se usare la lingua italiana o la francese, la cui conoscenza è universalmente diffusa nel mondo della diplomazia. Infine prevalse la prima tesi, anche se pochissime delle millecinquecento persone presenti nella sala del Palazzo del Lussemburgo erano in grado di seguire qualche frase in italiano. Bisogna aggiungere che molti problemi relativi all'Italia erano noti solo superficialmente alla stragrande maggioranza dei delegati dei ventun Paesi che si apprestavano a prendere importantissime decisioni a carico dell'Italia.
La «guerra fredda» già sviluppatasi in seno ai «Quattro Grandi» vincitori della seconda guerra mondiale complicava la situazione a nostro danno. E c'era il pericolo che grosse risoluzioni venissero prese, non secondo uno spirito di obiettività e di giustizia, ma quali concessioni alla parte avversa, in cambio di compromessi in altre questioni non riguardanti l'Italia.
La più grave incognita era il destino della Venezia Giulia e di Trieste, che la Jugoslavia, spalleggiata dalla Russia, voleva annettersi. Incombeva anche il pericolo di perdere l'Alto Adige, territorio ottenuto con la sanguinosa guerra del 1915-'18 ed ora insidiato dalle pretese dell'Austria, a causa della popolazione di lingua tedesca residente in Alto Adige. Quella popolazione era, come lo è oggi, una minoranza. Nessuno meglio di De Gasperi, trentino, conosceva la questione. Ma non era facile spiegarla a un americano o a un russo o a un sudafricano. Bisognava salvare il confine del Brennero. Ed erano argomento della Conferenza anche le richieste francesi sulla nostra frontiera occidentale, le colonie, il destino della flotta, il ritorno dei prigionieri, le riparazioni e le clausole economiche per la firma della pace.
Il discorso tenuto da Alcide De Gasperi nel pomeriggio di quel 10 agosto 1946 rimane uno dei pilastri fondamentali di tutta la sua lunga opera politica. Egli non cercò di nascondere le colpe dell'Italia fascista. Riconobbe gli obblighi dell'Italia. Accettò il principio che il nostro Paese avrebbe dovuto compiere sacrifici per rientrare nella normalità e per essere riammesso tra le Nazioni libere e democratiche. Ma ricordò anche gli scopi per cui era stata combattuta la guerra contro Hitler e Mussolini: la sconfitta del fascismo e del nazismo doveva lasciare posto ad un clima di giustizia e di eguaglianza tra le Nazioni. Anche l'Italia, ad un certo momento, aveva compiuto sforzi e sacrifici per questa causa. E non si poteva confondere il regime fascista con tutti gli italiani. L'Italia avrebbe accettato a fronte alta il fardello di adeguate riparazioni, non intese però come misure spieiatamente punitive, ma quale strumento di cooperazione internazionale.
La battaglia appariva disperata, perché l'impostazione del documento per la pace era già avvenuta e in diversi punti esso assomigliava più a un diktat imposto dal vincitore al vinto che non ad uno strumento di ricostruzione mondiale. De Gasperi fu risoluto nell'esigere che il preambolo contenesse un richiamo agli sforzi e ai sacrifici compiuti anche dall'Italia. Per Trieste chiese il rinvio di ogni decisione. Ammonì contro le soluzioni ingiuste e contro facili compromessi, che non avrebbero risolto la sostanza dei problemi, e che prima o poi avrebbero danneggiato la democrazia e la pace.
De Gasperi parlò per tre quarti d'ora, riducendo le questioni nei loro termini essenziali e rendendole chiare e intelleggibili a tutti, com'era nel suo stile. Egli era solito dire che una causa è degna di essere difesa solo se la si può esporre in maniera semplice e facilmente comprensibile.
Un lungo silenzio accolse la fine del discorso; ma era un silenzio diverso dal penoso gelo che aveva circondato la delegazione italiana al suo ingresso nell'aula. L'uditorio era stato colpito soprattutto dalla sincerità dell'esposizione. Le radicate prevenzioni nei confronti dell'Italia frenarono però i buoni sentimenti di molti delegati che avrebbero voluto congratularsi con De Gasperi, il quale pallido e come oppresso da una terribile stanchezza era disceso dalla tribuna e stava risalendo l'emiciclo. Solo il segretario di Stato americano Byrnes gli tese la mano.
Racconta lo stesso Byrnes: « Il Primo ministro italiano parlò con tatto, ma con dignità e con coraggio. Quando lasciò il rostro per tornare al posto assegnategli nell'ultima fila.


LE CLAUSOLE DEL TRATTATO
Il Trattato di Pace con l'Italia si articolava in otto Sezioni comprendenti nell'ordine: Clausole Territoriali (Artt. 1 a 14); Clausole Politiche (Artt. 15 a 44); Criminali di Guerra (Art. 45); Clausole Militari Navali e Aeree (Artt. 46 a 67); Clausole economiche e finanziarie (Artt. 74 a 82).
Le Clausole Territoriali sancivano le rettifiche di frontiera a favore della Francia, l'immutabilità delle frontiere del Brennero, la cessione di parte della Venezia Giulia alla Jugoslavia e la costituzione del Territorio Libero di Trieste affidato alla garanzia del Consiglio di Sicurezza dell'O.N.U. Le Clausole Politiche comprendevano una serie di norme di carattere generale tra cui l'obbligo per l'Italia di assicurare i Diritti dell'Uomo e le Libertà fondamentali, di non perseguitare quei cittadini che avessero svolto attività a favore della causa alleata, di reprimere qualsiasi tentativo di rinascita fascista, ecc.
Clausole nient'affatto umilianti, come invece lo furono quelle relative alle Colonie verso le quali l'Italia avrebbe dovuto rinunciare «a tutti i diritti e titoli».
Tutte queste clausole, unitamente a quelle economiche e finanziarie relative alle riparazioni, restituzioni, indennizzi, confische, a favore dell'U.R.S.S., della Francia, della Jugoslavia, della Grecia, dell'Etiopia e dell'Albania, valutati in circa 360 milioni di dollari in oro -ma in effetti successivamente ridotti- vennero come si sa da noi rispettate o necessariamente subite.
Le Clausole Militari delle Parti IV e V furono le più lesive, dopo le perdite territoriali, del nostro onore nazionale e quel che è peggio in aperta violazione alle promesse fatte nel tempo della nostra cobelligeranza dagli Alleati, limitatrici della sovranità di un Paese libero e indipendente.
Le Clausole Militari Navali e Aeree distribuite, come s'è detto, in 21 articoli (dal 46 al 67) prevedevano lo smantellamento di fortificazioni e installazioni militari lungo le linee di confine italo-francese, il divieto di ricostruirle e la smilitarizzazione di lunghi tratti della costa ligure (art. 47). L'articolo 48 prevedeva eguali, pesanti restrizioni militari lungo la nuova frontiera italo-jugoslava e nella penisola salentina. Gli articoli 49 e 50 imponevano la smilitarizzazione di Pantelleria, Lampedusa e di altre isole minori nonché la distruzione di installazioni permanenti d'artiglieria costiera e navale esistenti in Sardegna e in Sicilia. L'articolo 51 stabiliva il divieto di possedere cannoni di gittata superiore ai 30 km. e di fabbricare, sperimentare armi atomiche, proiettili telecomandati ecc. L'articolo 54 fissava il limite delle forze corazzate a 200 unità. Gli articoli 56-60 e allegati fissavano la riduzione della Marina Militare e dei suoi effettivi a 67.500 t. e 25.000 uomini, escludendo per noi la facoltà di possedere sommergibili e unità siluranti. Gli articoli 61-63 limitavano il nostro esercito a 185.000 uomini e 65.000 carabinieri mentre gli articoli 64-66 fissavano a 200 gli aerei da combattimento e da ricognizione -esclusi quindi quelli da bombardamento- con un personale massimo di 25.000 unità.
Queste, in sintesi, le clausole militari propriamente dette, clausole, come si vede, durissime, gravi, sia nei confronti delle nostre esigenze difensive, sia sotto il profilo morale in quanto lesive, come s'è già detto, del sentimento nazionale e perché in contrasto con le promesse fatte dagli Alleati dopo l'8 settembre 1943.
Espressione di una concezione anacronistica della guerra, della vittoria, della pace, della vita internazionale, come bene disse il 24 luglio 1947 il Ministro Sforza nel suo discorso alla Costituente sulla necessità della ratifica, il Trattato di Pace è oggi ben morto e sepolto. L'opera di revisione, iniziata si può dire il giorno stesso della firma, già alla fine del '51, in virtù dell'azione ferma e costante del nostro Governo, del graduale inserimento del nostro Paese, attraverso patti bilaterali con gli stessi ex nemici, nella comunità occidentale e per tante altre ragioni facilmente comprensibili, poteva dirsi in gran parte compiuta. Accolta l'Italia nel 49 tra i membri originari del Patto Atlantico, ottenuto con la dichiarazione Tripartita del 26 settembre 1951 il riconoscimento della decadenza morale del Trattato, contrario oltretutto allo spirito dello Statuto dell'O.N.U., la strada per il definitivo annullamento delle clausole politiche e militari era ormai aperta.
Sciolta nel 1954 la questione di Trieste, nel maggio '55, sotto il Governo Scelba, una decisione collegiale del Consiglio della NATO avrebbe posto fine ad ogni aspetto discriminatorio del Trattato di Pace aprendo la via alla solenne ammissione dell'Italia alle Nazioni Unite avvenuta nel dicembre 1955. Data, questa, fondamentale nella storia del nostro Paese, uscito dalle rovine della guerra e della sconfitta, che segna il totale seppellimento di ogni eredità bellica, il riconoscimento anche formale, dopo quello sostanziale degli anni precedenti, della parità conseguita dall'Italia fra i Paesi liberi.

I VENTUNO PAESI VINCITORI
Alla Conferenza della pace, o dei Ventuno, protrattasi dal 29 luglio 1946 al 15 ottobre dello stesso anno, parteciparono le seguenti potenze:
- USA - GRAN BRETAGNA - CANADA - UNIONE SUDAFRICANA - AUSTRALIA - NUOVA ZELANDA
- INDIA - URSS - UCRAINA - BIELORUSSIA - POLONIA - CECOSLOVACCHIA -JUGOSLAVIA
- FRANCIA - BELGIO - OLANDA - NORVEGIA - GRECIA - CINA - BRASILE - ETIOPIA
Fu deciso inoltre di ascoltare i delegati di: Albania, Austria, Egitto, Iran, Messico, Cuba. Al contrario di quanto già era avvenuto alla Conferenza del 1919, al Vaticano non fu concesso di farsi rappresentare da un osservatore.

Articolo di Dino Zannoni tratto da Storia Illustrata del 1966.


Il presidente del Consiglio
Alcide De Gasperi.


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