Enrico Toti.
Al comando di tappa di Cervignano, ufficiali e soldati vivevano le ore intense della guerra ed era un incrociarsi febbrile di ordini, un arrivare ed un partire ininterrotto. I soldati passavano a centinaia, i nomi ed i volti si confondevano e la fantasmagoria che si ripeteva era diventata abituale. Ma in un bruciante pomeriggio di giugno, un giovane mutilato attirò l'attenzione e fece sorgere un vivo senso di ammirazione e di sorpresa.
Era venuto in bicicletta da Roma, con la stampella legata alla macchina: si chiamava Enrico Toti ed aveva lasciata la mamma, la casa, il laboratorio per servire la Patria, per offrirle l'opera del suo braccio e l'amore del suo cuore, per viverne tutti i pericoli e tutte le ansie, per morire se occorreva.
Offriva i suoi servigi parlando grave e fissando con ansia gli occhi bruni e vividi sul volto dei superiori, per tema di non essere accolto fra le file dell'esercito, per tema che la sua mutilazione fosse un ostacolo più forte del suo slancio e della sua generosità.
Il Maggiore Lanino gli diede il permesso di restare aggregato alla Tappa ed a sera, allestito in un angolo di un camerone terreno il suo letto primitivo ed ornata la parete con una bandiera tricolore, sotto la quale incollò un ritratto di Guglielmo Oberdan, s'addormentò con un sogno radioso nel cuore.
Iniziò così una vita di attività e di eroismo, di umiliazioni e di rivolte segrete, di slanci e di rinuncie, si prodigò con fede e con abnegazione irradiando all'intorno la fiamma del suo amore. Durante il giorno si occupava in forme svariate e a sera, attorniato dai soldati e da sottufficiali, raccontava gli episodi avventurosi della sua vita con un accento semplice e vero.
A 15 anni per aiutare la sua famiglia si era arruolato volontario nella Regia Marina ed era stato ben presto nominato torpediniere elettricista scelto. Nel 1904 aveva preso parte alla campagna contro i pirati nel Mar Rosso. Il ricordo dell'azzurro del ciclo e del mare sconfinato lo inebriava.
Passato nelle Ferrovie dello Stato in qualità di meccanico a 25 anni, nel fiore della giovinezza, in un doloroso incidente di lavoro aveva avuto la gamba sinistra fracassata ed era stato costretto a subirne l'amputazione. Non si era abbandonato tuttavia all'inerzia dell'invalido ma aveva intrapreso una vita di lavoro e di audacia. Il desiderio di istruirsi e di conoscere nuovi uomini e nuove cose lo aveva spinto a compiere il viaggio del mondo in bicicletta.
In una mattina del 1911 partì da Roma, senza denaro, senza appoggi, sicuro tuttavia di sormontare ogni ostacolo con la forza della sua volontà. Attraversò l'Europa centrale e si spinse fino alle terre gelate della Lapponia e tra le steppe della Russia, ridiscese nella Polonia, nell'Ungheria, nell'Austria, ma da Vienna fu scacciato perché girava per le vie cinto da una gran sciarpa tricolore ed allora, bollente di sdegno, troncò il suo viaggio e prese il treno per il ritorno. Alla vista della frontiera scrisse: «Sono in Italia. Finalmente ! Stanotte nel treno mi veniva da piangere e da ridere dalla contentezza di rivedere la mia terra natale».
Ma lo spirito di avventura non tacque a lungo in lui ed eccolo di nuovo in viaggio verso la torrida Africa, dove, sbarcato ad Alessandria di Egitto, percorre in bicicletta il corso del Nilo e giunge nella Nubia con , il desiderio di spingersi nell'interno e di combattere gli antropofaghi Niam-Niam. Ma l'autorità inglese proibisce all'audace di avventurarsi di più ed egli con un mondo nuovo nel cervello e nello spirito ritorna alla casa paterna.
La nostra guerra di riscatto non poteva lasciare indifferente un'anima come quella di Toti. Alla Tappa di Cervignano il soldato dalla gamba stroncata divenne ben presto leggendario. Egli faceva di tanto in tanto delle sparizioni e ritornava a sera con un sorriso sulle, labbra e delle notizie preziose per il Comando: veniva dalle linee estreme dove si spingeva di soppiatto come verso una terra di delizie. Un giorno si diresse verso la linea dei granatieri, strisciando come una serpe fra i campi, ma giunto a Monfalcone, fu sorpreso dai carabinieri, ricondotto a Cervignano e di qui rimandato a Roma.
— Parto per terra, — disse trattenendo a stento i singhiozzi, — ma ritornerò per aria, per mare se occorre. — I compagni che lo conoscevano l'attesero, sicuri che non avrebbe mancato alla sua promessa.
Nel frattempo il sublime mutilato tanto pregò, insistette, supplicò, finché il Duca d'Aosta commosso da una sua supplica lo ricevette nella terza Armata.
Toti scriveva al nobile condottiere: «Scoppiata la guerra contro la barbara Austria a Roma io presi parte alla testa dei dimostranti con la bandiera sventolante... Più tardi ebbi il tricolore, ed io promisi di farlo sventolare per primo sul colle redento di S. Giusto... Sono familiarizzato con il pericolo a tal punto, che nessun ostacolo sarebbe atto a farmi rimuovere dall'impresa prefissami.... Sono oramai conosciuto da quasi tutti gli ufficiali e soldati di Cervignano, anzi un giorno fui abbracciato e baciato; se voglio sono invisibile e potrei, ne sono sicuro, penetrare nel campo nemico e studiarne le posizioni, scoprirne le batterie, senza da essi essere veduto... Le giuro che ho del fegato e qualunque impresa la più difficile che mi venisse ordinata la eseguirei senza indugio... Ora vengo a supplicarla di aggregarmi a qualche corpo ed essere così lusingato dalla speranza o di morire da eroe o di entrare fra i primi a Trieste...
E così tornò alla fronte con la stampella, con la bicicletta, la bandiera ed i documenti in regola per essere aggregato alla Tappa di Cervignano.
Gli occhi dolci e buoni di Enrico Toti splendettero di una nuova fiamma. Il sogno del combattente non era però ancora compiuto. Quando i battaglioni dei fanti e dei bersaglieri passavano rapidi, gagliardi, diretti alle trincee, egli guardava con pietà la sua gamba stroncata. A volte di contrabbando si mescolava con essi, li entusiasmava con il suo entusiasmo, li incitava ad andare contro il pericolo come ad una ebrezza. E scriveva alla mamma: «Sono tra i valorosi soldati d'Italia, la mia salute è ottima, sii tranquilla e volgi il tuo pensiero alla vittoria delle nostre armi».
Una sera si presentò alla Tappa con l'elmetto piumato di bersagliere, e folle di gioia, annunciò ai compagni che il maggiore Rizzieri lo aveva accolto nel battaglione ciclisti. Ivi profuse tutto quello che di più nobile e di più generoso ferveva nella sua bella anima.
Alla vigilia dell'impresa di Gorizia dando sue notizie alla mamma annunciava: « Tra poco ci sarà una grande offensiva, e sono più che sicuro di scriverti da Gorizia. La pace è sicura e nel ritorno passeremo per Trieste. Allora sarà finita la guerra, l'austriaco sconvolto, e la calma ritornerà a regnare.... Se questa causa santa ha bisogno anche del mio braccio esultane, morirò da eroe ». E così con questa fede sicura nel cuore il 4 agosto 1916, mentre con i compagni andava all'assalto di quota 85 egli fu colpito mortalmente. Per tre volte cadde e per tre volte si rialzò: morente getta al nemico con un gesto eterno la stampella, l'ultima arma, la più grande, quella che è passata alla storia. E baciando il piumetto dell'elmo spirò.
Un piccolo lembo di terra accarezzato dal mare ne ricevette le spoglie.
Ma gli antichi eroi della città immortale lo vollero con loro e il popolo, che aveva udito il richiamo, lo rimosse dal lontano cimitero del Carso, attraverso l'Italia commossa e prostrata, per adagiarlo sul cuore di Roma per l'eterno riposo. Ad ogni stazione una folla aspettava sempre più fitta, sempre più triste e mille mani si tendevano cariche di fiori, e fiori e fiori piovevano sulla salma avvolta nel tricolore: le madri si inginocchiavano, i fanciulli mandavano baci. A Roma la salma fu portata a braccia lungo le vie, per le piazze,, fra le case imbandierate, sotto il cielo azzurro.E i fiori piovvero ancora a fasci olezzanti, dai palazzi, dai tuguri, dalle logge, la folla camminò sui petali e l'aria fu tutta un effluvio.
Poi la salma fu tumulata: il Re s'inginocchiò dinanzi ad essa, i generali piegarono il capo riverenti, i soldati presentarono le armi, cento e cento bandiere si curvarono fino a terra, un'onda di canzoni s'alzò al cielo. Il popolo tutto si prostrò: vi fu un silenzio e poi lo scoppio formidabile di mille voci: Salve a Toti ! Il soldato ciclista, il popolano di Trastevere era passato come un principe per la capitale: il principe della gloria. Da un umile cimitero del Carso petroso Roma lo aveva chiamato, lo aveva voluto perché era il figlio più puro del suo popolo, il figlio più grande; lo aveva voluto per l'eternità.
Agosto 1916.
Brano tratto da: Beatrice Dalla Barba, MEDAGLIE D'ORO.
Opera vincitrice del concorso indetto dal Comune di Vicenza per un libro di lettura per le scuole elementari e il corso popolare.
Vicenza, Casa Eeditrice Rossi, 1926. | | |